Nairobi, 09 apr. – “Non basta parlare di transizione. Serve parlare di just transition. E una transizione non è giusta se esclude il 51% della popolazione”. Con queste parole, Mehjabeen Alarakhia, Women’s Economic Empowerment Policy Specialist e Deputy Regional Director Oic per l’Africa Orientale e Meridionale di UN Women, ha aperto il panel “Empowering Change: What Women Bring to the Table”, durante la seconda giornata della conferenza Inaet 2025 a Nairobi.

Il suo intervento ha posto con forza un tema spesso marginalizzato nel dibattito sulla transizione energetica: l’inclusione delle donne non è una variabile accessoria, ma una condizione essenziale di giustizia, efficacia e sviluppo.

Alarakhia ha ricordato che le donne africane sono oggi le principali vittime della povertà energetica, ma anche agenti di cambiamento nei territori. Oltre 300 milioni di donne nel continente non hanno accesso all’elettricità; molte dipendono ancora da combustibili tradizionali per cucinare, con gravi ricadute su salute, ambiente, produttività e tempo libero. “Una donna in alcune zone dell’Africa orientale può impiegare fino a quattro ore al giorno per raccogliere legna. Se investiamo in tecnologie di clean cooking, non solo proteggiamo l’ambiente: liberiamo tempo per l’istruzione, il lavoro, la leadership”.

L’energia – ha insistito – non è neutrale rispetto al genere. Le politiche che non lo tengono in conto rischiano di replicare, o addirittura amplificare, le disuguaglianze esistenti.

Il divario di genere nel settore energetico è evidente. Solo il 7% delle startup nel settore energia ha fondatrici donne, nonostante questo sia uno dei comparti che attrae la maggior parte della finanza climatica globale. Nelle aziende del settore rinnovabile in Africa subsahariana, le donne occupano solo il 25% dei ruoli di leadership e guadagnano in media il 20% in meno degli uomini a parità di mansioni.

Alla radice di questi squilibri ci sono barriere sistemiche: difficoltà di accesso al credito, scarsa alfabetizzazione finanziaria, assenza di garanzie patrimoniali, ma anche norme sociali e culturali che scoraggiano le ragazze a intraprendere carriere nelle Stem fin dall’infanzia.

“Parliamo spesso di accesso alla finanza – ha osservato – ma non basta offrire lo stesso strumento a tutti. Le donne affrontano sfide specifiche, che richiedono strumenti specifici e politiche su misura”.

Una delle critiche più puntuali avanzate da Alarakhia riguarda il modo in cui la dimensione di genere viene generalmente trattata nelle politiche pubbliche: “Arriva sempre alla fine, come una nota a piè pagina. Dobbiamo iniziare i processi di policy con una lente di genere, non aggiungerla dopo. Se stiamo scrivendo una strategia energetica nazionale o una NDC, la domanda non può essere “come includiamo le donne?”, ma “come questa strategia impatta in modo diverso su uomini e donne?”.

UN Women invita i governi africani e i partner internazionali a fare della gender responsiveness una condizione strutturale della transizione: nei bandi pubblici, nelle riforme regolatorie, nella distribuzione della finanza climatica.

L’inclusione reale, secondo Alarakhia, passa anche dal riconoscimento delle responsabilità non retribuite che gravano sulle donne, come la cura familiare. “Non possiamo organizzare un training su cucina pulita senza pensare a chi si occuperà dei figli di quella donna durante il corso. O forniamo un servizio di assistenza, o falliamo nell’inclusione”. È un appello a pensare alla donna nella sua interezza, non solo come destinataria di un progetto, ma come persona inserita in una rete sociale e familiare.

“La transizione energetica in Africa è una delle più grandi opportunità per riparare disuguaglianze storiche e costruire un futuro più equo – ha concluso – ma se non agiamo in modo deliberato, rischiamo di replicare le stesse dinamiche di esclusione di sempre”. [Agenzia Infomundi – Infocoopera]

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